Neruda – La trama all’osso: 1948, guerra fredda in Cile. Il senatore Pablo Neruda accusa il governo di tradire il partito comunista e viene accusato dal Presidente Gonzalez Videla. Il prefetto Oscar Peluchonneau deve arrestare il poeta che cerca di fuggire dal paese con la moglie. Ispirato dai drammatici eventi della sua nuova vita da fuggitivo, Neruda scrive “Canto General”. Neruda vede nella sua storia di poeta perseguitato dal suo implacabile avversario, la possibilità di diventare sia un simbolo di libertà che una leggenda letteraria.


Neruda, penultimo film di Pablo Larràin (l’ultimissimo è Jackie, presentato a Venezia 73, deve ancora uscire in sala) è un film assolutamente da vedere. È stato presentato a Cannes nel 2016 nella Quinzaine des Réalisateurs e chissà perché non nel concorso ufficiale.

Il titolo ci inganna un po’: è un biopic ma allo stesso tempo non è il classico film biografico come hanno commentato all’unisono le grandi testate internazionali e di settore da The New York Times a Variety e Little White Lies. Anzi  – diciamolo – è un anti-biopic.

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Racconta sì il poeta e uomo politico Pablo Neruda e una parte della sua incredibile e movimentata storia (il suo passaggio alla clandestinità nel 1948 dopo aver denunciato la connivenza del governo di Videla con gli USA e quindi la sua fuga dal Cile), ma allo stesso tempo crea un “nuovo” Neruda, unico e specifico. Questo Pablo non teme confronti (ad esempio con l’altrettanto bello Pablo interpretato da Philippe Noiret ne Il Postino che ricordiamo tutti per il meraviglioso Massimo Troisi). Questo Neruda è semplicemente unico, gli crediamo, e non abbiamo bisogno di chiederci se ciò che vediamo sia accaduto davvero, perché sentiamo un vago odore di verità, e questo ci basta (per me davvero al cinema come in teatro l’importante è crederci, il patto con lo spettatore è tutto).

Il regista cileno ha affermato in numerose interviste di non volere tanto fare un film su Neruda e la sua biografia in modo documentaristico, quanto su ciò che Neruda ha saputo creare e lasciare nel mondo, ciò che in Cile viene definito come lo nerudiano.

Neruda per noi cileni è ovunque: nell’aria, nell’acqua, negli alberi. Ha definito il nostro Paese e il nostro linguaggio come nessun altro. Questo non è un film per conoscere Neruda, ma il suo mondo.

Assistiamo allora a un racconto di un pezzo di vita, ma soprattutto ascoltiamo atmosfere, situazioni, parole letterarie e parole di poesia, affermazioni politiche, slogan e vediamo vite, le molte vite di Neruda.

L’impressione più forte però è quella di trovarsi prima di tutto di fronte ad un film di inseguimento – chase film – : due personaggi, uno fugge, l’altro lo insegue. Di solito un bandito e il poliziotto. Un buono e un cattivo, insomma.

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Neruda (Luis Gnecco), entrato in clandestinità, fugge ed è inseguito dal poliziotto Oscar Peluchoneau (Gael Garcìa Bernal), realmente esistito, ma poco importa. Da subito chi sia il buono o il cattivo non lo capiamo più.

Abbiamo il grande Neruda, eccessivo, vitale, multiforme e il piccolo (anche fisicamente) poliziotto piccolo borghese-uomo medio, che nel suo inseguimento vede un possibile riscatto della propria mediocre condizione. Il poeta gioca con l’ispettore al gatto col topo accelerando e dilatando la propria fuga e si diverte a lasciargli delle tracce (vi lascio scoprire come). Forse anche Neruda insegue Peluchoneau, fuggendo.

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Parteggiamo ora per uno, ora per l’altro e il momento che più aspettiamo è il loro confronto, faccia a faccia.  Perché sì: Neruda è anche un western. E come tutti i western ci regala quei bei primi piani con occhi nel sole sotto il cappello, anche se non siamo in Texas, ma sulle Ande innevate.

Personaje secundario? Jo? No, no señor. Porque te voy a garrar.

Con questa voce si apre il film, e Larràin ci consegna la chiave. È la voce di Peluchoneau, parla da solo epicamente e allo stesso tempo al suo inseguito Neruda: ti prenderò e ti farò vedere che io sono come te, degno di essere il protagonista.

È anche una storia di identità e di orgoglio e ostinazione Neruda. Del tentativo di tutti di iscriversi(ci) nella Storia come protagonisti e di essere protagonisti allo stesso tempo della (nostra) propria storia. Mica facile.

E poi è una storia di personaggi secondari e da Stoppard in poi sappiamo che spesso possono interessarci anche più di Amleto. Qui sono tratteggiati eppure vividi, prima fra tutte la seconda moglie del poeta Delia del Carril (Mercedes Moràn) pittrice, più grande di lui di vent’anni, colei che fa conoscere a Neruda il comunismo marxista. I due si scontrano e in un apparentemente banale scambio su chi sia il vero artista. Uno scambio dove invece c’è tutto: l’ego e l’incapacità di fare un passo indietro, di diventare personaggio spalla.

Il cast è ottimo e azzeccato, ed ecco una caratteristica ricorrente dei film di Larràin. Il regista cileno ha i propri attori feticcio, o meglio, la propria famiglia artistica. Eppure, sanno trasformarsi e rinnovarsi ed essere calzanti. Abbiamo già citato gli eccellenti Luis Gnecco e Gael Garcia Bernal (entrambi già in No). Il primo: grande, epico, carnale, rozzo, sensibile autorevole impegnato Neruda. Il secondo: scattante,invidioso e orgoglioso, suo malgrado comico, Peluchoneau (malgrado del personaggio, non certo dell’attore Gael). Alfredo Castro, con Larraìn in tutti i suoi film (ricordiamo per tutti Tony Manero) è Jorge Rafael VidelaMarcelo Alonso (andate a vedere il bellissimo El club) è Pepe Rodrìguez, un uomo che aiuta il poeta fuggitivo.

Fondamentali i due protagonisti per Larràin. Li ha aspettati per anni, perché impegnati o troppo dimagriti per fare il film. Dalle interviste scopriamo che il precedente El Club (altrettanto bello eppure diversissimo, vincitore dell’Orso d’ Argento alla Berlinale 66) è stato fatto “velocemente” nell’attesa della disponibilità dei due.

Film rimasto in gestazione a lungo, con difficoltà produttive a cui Larràin ha risposto aggiungendo venti pagine di copione anziché toglierle, ma risparmiando su costumi e velocità delle riprese (quasi un solo vestito per i personaggi principali).

Neruda è tutto ciò che abbiamo già detto e infine in qualche modo una specie di poesia, ovviamente nerudiana: racconta una storia ma è frammentato (merito della sceneggiatura di Guillermo Calderòn e del montaggio eccezionale di Hervé Schneid), è ricco di colori e sapori, veloce ma sa indugiare, realistico e onirico assieme. Fotografato benissimo negli interni soffusi e negli orizzonti andini da Sergio Armstrong, manco a dirlo.

Il consiglio è di vederlo, e magari in lingua originale (qui in chiusura articolo vi indicavo alcune sale che seguono questa buona pratica).

A noi Pablo Larràin piace, ma di brutto, perché ogni suo film è un mondo nuovo, un racconto speciale e perché ha il coraggio di cambiare, sempre. Aspettiamo con ansia l’uscita di Jackie nelle sale, ormai nel 2017, e intanto potete guardare se ve li siete persi: Tony Manero, Post mortem, No, El club. Non sbaglierete.

Ben più autorevole parere, ma ecco qualcuno che qui la pensa come noi su tante cose, e ci fa piacere.

 

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