Ieri in tanti, tantissimi hanno letto la lettera di Michele, trentenne udinese, pubblicata dopo la sua morte per volere dei genitori sul Messaggero Veneto.

Una lettera piena di dolore, delusione e stanchezza.

Una lettera che molti trentenni (o giù di lì) hanno condiviso, in cui hanno ritrovato momenti difficili che tanti della nostra generazione hanno affrontato. Le porte sbattute in faccia, le risposte che non arrivano mai quando mandi curriculum, la precarietà sentimentale e lavorativa che ti fa sentire un “fuori sistema”, la rabbia verso scelte politiche che non ci hanno mai considerato.

Una lettera scritta bene, ma in cui io non mi ci ritrovo affatto. E penso sia giusto dirlo.

Perché di precarietà si può soffrire, ma non si può morire. E dicendo questo non voglio assolutamente giudicare in alcun modo la scelta di una persona sofferente.

Qualcuno ha scritto che Michele era uno di noi. Sì, lo era. Ma in quel noi ci sono tante, tantissime scelte diverse che secondo me vale la pena ricordare.

Sono stanca di come si parli della mia generazione solo per sbeffeggiarla o solo nel caso in cui purtroppo avvengono delle tragedie. Prese in giro, disgrazie, a cui si risponde solo sui social e a cui non segue nulla. Almeno servissero a qualcosa. E invece non servono proprio a niente se non a dare una visione sbagliata, o quanto meno univoca della realtà.

È un’immagine parziale, una descrizione che non serve a niente di niente se non ad affossare ancora di più chi si trova ad affrontare un momento di difficoltà.

Nel 1970 il 60% delle persone viveva sotto la soglia di povertà, nel 2015 il dato è sceso al 9,6%. L’aspettativa di vita mondiale nel 1950 era di 48 anni, mentre oggi è di oltre 71; nel 1960 ogni mille bambini nati, 181 morivano prima dei cinque anni, nel 2015 siamo intorno a 45. Anche per la scolarizzazione si è registrato un miglioramento: 65 anni fa gli analfabeti erano il 64%, oggi non superano il 15%. Di dati simili se ne possono citare molti, eppure, nonostante tutto ci evidenzi una situazione di miglioramento, l’idea che molti cittadini hanno dell’epoca attuale, è quella di un periodo di declino.

Se il mondo va meglio, perché allora abbiamo la sensazione che vada peggio? Le spiegazioni che vengono offerte sono sostanzialmente due: la natura dei cambiamenti e la sfiducia nel futuro. I cambiamenti positivi avendo un andamento lento e costante, non trovano spazio nei mezzi di discussione ed informazione pubblica, quindi sono considerati poco rilevanti. Peccato. Perché così facendo, almeno che non si legga Pollyanna ovviamente, ci perdiamo tante cose belle, tante porte nuove che si aprono.

So cosa voglia dire soffrire di precarietà, ma io ho fiducia nel futuro. E se qualcosa non mi piace, combatto per cambiarla.

Per questo ho scelto di partire dalla lettera di Michele per il Buondì di oggi.  Per dire ai trentenni che stanno leggendo, ma non solo, che non ci si può abbattere. Non ce n’è motivo. Perché, con l’imperfezione tipica dell’umanità, stiamo davvero vivendo nel migliore dei mondi fino ad ora.

Ok, noi nati negli Ottanta in Italia, siamo stati sotto alcuni punti di vista sfortunati, dimenticati dalla politica, sicuramente impreparati davanti a quello che stava per cambiare con la crisi finanziaria del 2008, ma non c’è solo quello e non siamo solo quello. Abbiamo studiato, abbiamo viaggiato, siamo stati capaci di inventarci lavori, siamo più liberi e con meno pregiudizi di tutte le altre generazioni precedenti. E abbiamo anche tante possibilità. Certo, diverse da quelle dei nostri genitori, ma le abbiamo.

Dobbiamo smettere di misurarci con un metro che non esiste più. Pensare che esista e che sia sempre esistito solo un modo di fare le cose, solo una strada da percorrere.

Ognuno ha la sua di strada e se anche fosse una piazza e non una via, poco importa. C’è spazio per tutti e per lo stile di tutti.

Basta piangerci addosso per quello che non abbiamo. E soprattutto basta farci dipingere per ciò che non siamo. Pretendiamo quello che meritiamo, impariamo a non dare per scontate le qualità che abbiamo. Impariamo a farci valere. E non sui social network. Nella vita. Se davvero ci interessa, combattiamo, facciamo squadra. Per ciò che è giusto.

Alziamo la voce in maniera costruttiva. Crediamo nel futuro, miglioriamo ancora questo mondo.

Per tutti noi. E quindi anche per Michele.

 

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