Ieri sera sono stata andata a seguire la presentazione del libro Felicità italiane. Un campionario filosofico. Il risultato di un lungo lavoro collettivo che si è svolto per più di tre anni, coinvolgendo un nutrito gruppo di filosofi, decisi a misurarsi con un tema cruciale e allo stesso tempo immenso e sfuggente come la felicità. La domanda che ha guidato il progetto è stata: “dove la cercano, gli italiani, la felicità?”; in quali sfere della vita e a partire da quali aspettative? E in quali esperienze?

Non voglio e non posso fare una recensione del libro. E non perché non mi sia piaciuto o interessato, anzi. È che dopo una serata circondata da menti sublimi, mi sento in difficoltà anche solo a scrivere una frase di senso compiuto senza essere invasa da un senso di banalità, figuriamoci cercare di parlarvi di un libro da filosofi…ma il Buondì è un appuntamento a cui tengo troppo per far vincere i miei timori in toto e abbandonarmi tra le braccia di Morfeo senza scrivere qualcosa.

Dunque, eccomi qui a provare di parlare di felicità a modo mio. Sì perché durante la presentazione la mia mente ha iniziato a inseguire il concetto del diritto alla felicità.

La definizione di felicità è impossibile, fortunatamente secondo me. Perché così si adatta più facilmente alle esigenze e ai momenti di ognuno di noi. Troppo facile? Insomma io non sono d’accordo con Guccini (borioso) che canta “felicità che sappiamo soltanto guardare, aspettare, cercare già fatta, quasi fosse anagramma perfetto di facilità”. Secondo me facilità e felicità possono anche andare giustamente d’accordo senza per forza farci sentire in colpa.

Ciò che mi stupisce, invece, è come il concetto del diritto alla felicità faccia sempre pensare alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti di solito a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra.

Spesso e volentieri  leghiamo la felicità a concetti sciocchi (non per questo facili eh) o che comunque raramente incontrano la potenzialità di un pensiero rivolto alla collettività. Per carità, non voglio dire che sia sbagliato o ingiusto sentirsi felici quando si compra, che so, un biglietto aereo o un rossetto che ci piace o quando si limona duro con il nostro amore.

Voglio dire che mi piacerebbe si imparasse a pensare alla felicità anche quando siamo chiamati a votare o quando mandiamo nostro figlio a scuola.

Più che diritto alla felicità individuale da sbandierare nei momenti difficili mi piacerebbe che ci rendessimo conto che a tutti noi è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d’infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra.

Insomma questa mattina non chiedetevi cosa sia la felicità, semplicemente provate a essere felici e provate a rendere felici gli altri, eliminando le sofferenze evitabili. Del resto, come diceva Epicuro:

Il lieto fine, la buona notizia, è che questo bilancio possiamo farlo ora e ripartire da qui, rilanciare da oggi la nostra voglia di felicità proprio sulla base di ciò che conta per noi. Basta incominciare, basta provarci anche se è chiaro che il ritratto sarà mutevole nel tempo, il nostro e quello della felicità, che ci capiterà di morire e rinascere spesso per continuare a dirci felici. Per questo dovremo sostenerci e ricordarcelo a vicenda perché proprio l’amicizia percorre danzando la terra, recando a noi tutti l’appello di destarci e dire l’uno all’altro: felice!

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