A me piace iniziare i libri. Mi piace vedere le pagine che ho davanti, che sono pulite e non ancora spiegazzate.
Mi piace il gesto di iniziare un libro, anche se magari ci metto un po’ a capire se mi piace o no. Molto spesso ne inizio uno nuovo senza aver minimamente finito quello vecchio. Magari ne comincio cinque e non ne ho finito neanche uno. Il punto è che a me piace iniziare le cose, perché mi sembra sempre la parte migliore.

Ci sono io da piccola, avrò sui nove-dieci anni. Vedo proprio l’angolo della strada, vicino a casa mia. Davanti va mia madre, forse c’è anche mia sorella. Io vado un po’ lenta perché sto leggendo un libro che mia madre mi ha appena comprato. Si chiama Vacanze all’Isola dei Gabbiani, è di Astrid Lindgren, l’autrice di Pippi Calzelunghe. È abbastanza lungo, e appena lo apro mi prende. Ne sto leggendo un altro a casa ma mi sembra folle aspettare, l’ho appena comprato e per leggerlo non riesco neanche a camminare dritta per la strada.

Forse è da lì che è iniziata questa abitudine. Spesso succede così: inizio un libro, arrivo a un punto morto e penso: mi sono stufata di leggerlo ma mi andrebbe di leggere qualcos’altro. E così ne inizio un altro. Poi magari capita che arrivo a un punto morto anche lì e torno al primo. O ne inizio un terzo. Mi piace tanto iniziare le cose ma non sono bravissima a continuarle.

L’estate in cui avevo quindici anni ho letto Guerra e Pace. Avevo questa edizione enorme, in un unico volume, di mia zia, con una copertina rigida e le pagine fine, scomodissima da leggere (e che infatti io ho riconsegnato a mia zia del tutto distrutta, ricevendo l’assicurazione che “questo è l’ultimo libro che ti presto”). Mi piacevano tutte le parti dei balli e dei dialoghi, delle morti e dei matrimoni, ma trovavo di una noia interminabile le pagine e pagine di descrizioni delle battaglie e i capitoli dedicati alla strategia militare. E spesso mi perdevo a cercare di capire i nomi russi, che erano sempre diversi per parlare della stessa persona. Quindi nel frattempo, anche per ovviare all’impossibilità di portarmi appresso l’enorme Guerra e Pace, ho letto svariati libri, da La Storia Infinita a Lessico Famigliare, passando per Agatha Christie. E forse in qualche modo anche loro sono rimasti incastrati tra una guerra e un’altra, tra un nome russo e l’altro.

La maggior parte delle volte però è proprio il fatto che il libro sia nuovo ad attirarmi. Magari sto leggendo qualcosa che mi piace, ma compro un libro nuovo e allora devo iniziarlo. Quest’inverno ero a Londra, da Foyles, che è una libreria a tanti piani e con un caffè in cima, prendo Middlesex di Jeffrey Eugenides e inizio a leggerlo. Sto leggendo Trilogia della Città di K. e mi sta piacendo molto, ma il punto è che ho comprato un libro nuovo e mi sembra uno spreco non usarlo. Se lo inizio tra dei mesi non sarà lo stesso tipo di nuovo. Mi sarò già abituata a vederlo su qualche scaffale della libreria, o, più probabilmente, in una pila per terra.

Parlavo di questa cosa con due miei amici e loro sono inorriditi. Mi hanno detto che quando sono immersi in un libro non possono proprio iniziarne un altro in contemporanea.  E che appena lo finiscono devono prendere aria per poterne leggere uno nuovo. Non possono finirne uno e iniziarne un altro nella stessa giornata. Hanno bisogno di capire cosa leggere subito dopo, non è che tutto stia bene con tutto. A me piacerebbe fare così. Ma invece spesso succede che chiudo un libro, lo finisco e immediatamente ne apro un altro, anche solo per leggere le prime tre pagine. Credo che sia la paura di stare con un po’ di sano vuoto a farmi fare così.

In questo modo, a volte le storie si confondono tra loro. Quando a dicembre leggevo La Trilogia Della Città di K., che è ambientato durante la seconda guerra mondiale, a volte decidevo che anche tutte le parti di Middlesex ambientate nel passato erano ambientate in quel periodo, e viceversa. Inserivo un dettaglio di un libro all’interno dell’altro.

Un’estate stavo leggendo Heidi e Tom Sawyer, ed erano della stessa collana, solo che Heidi aveva la copertina verde e Tom Sawyer rossa. Io passavo da uno all’altro. A me piaceva molto di più Heidi, ma mi vergognavo ad ammetterlo, perché in quel periodo ero un po’ un maschiaccio e rifiutavo tutto ciò che avesse un sentore femminile, quindi di tanto in tanto tornavo a Tom Sawyer e riequilibravo la situazione. E allora a volte Tom Sawyer nella mia testa aveva appena fatto delle cose da Heidi, o era Heidi che sembrava tutta tranquilla e invece appena poteva se ne andava in cerca di fortuna chissà dove, mentre quello era  Tom Sawyer.

Se ci rifletto in modo rigido, queste contaminazioni non mi piacciono. Ma se invece non ci rifletto, mi fanno ridere. E mi sembrano l’unico modo di fare le cose, almeno per me.
Quindi credo che alla fine la cosa davvero interessante siano le corrispondenze che si creano, i dialoghi inevitabili e spesso non voluti né cercati tra un libro e l’altro. È lo spazio che occupano le storie, ritagliandoselo una dall’altra. Un’estate (a quanto pare io mi ricordo solo i libri che leggo d’estate) ero sotto l’ombrellone e leggevo un libro bellissimo che si chiama Il Tempo è un Bastardo. E lo stavo, appunto, iniziando, stavo leggendo la citazione sulla prima pagina del libro, e mi sembrava conosciuta. C’era scritto che era  tratta da un pezzo di alla Ricerca del Tempo Perduto, di cui proprio in quel periodo stavo leggendo un volume (ed era per questo che, per sfuggire alle interminabili descrizioni nelle quali mi arenavo, tra un pezzo bellissimo e l’altro, avevo deciso di iniziare un altro libro). Ho aperto il punto in cui ero arrivata di Proust e ho letto la pagina: la citazione all’inizio di Il Tempo è un Bastardo era proprio quella lì, tra tutte le migliaia di pagine da cui avrebbe potuto essere tratta.
Mi è sembrato un incastro perfetto, una consacrazione del voler leggere più cose insieme, di mescolare i piani tra loro.
E in quel caso, in qualche strano modo, i piani corrispondevano.

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