Alan Geaam, Ratatouille in carne e ossa

Diciamolo, non se ne può più di chef stellati e dei loro ego in perenne espansione.
Non se ne può più di sentirli discettare sull’universo mondo, di filosofeggiare sui problemi che affliggono l’umanità senza mai che il senso del ridicolo li sfiori, senza mai ricordarsi che in fondo stanno parlando di fettuccine e saltimbocca e non della salvezza dell’umanità.
Non se ne può più di vederli spadellare, sminuzzare, fiammeggiare e caramellare, pubblicizzando di tutto, dalle cucine alla carta igienica, dalle patatine ai dadi.
Non se ne può più di sentirli sproloquiare in terza persona, come si trattasse di divinità irraggiungibili.
E dunque tutto vorrei fare in questi miei articoli fuorché parlare di chef. Ma ogni tanto anche loro riescono a sorprendermi.

È il caso di una storia salita recentemente agli onori della cronaca. Una storia che sembra quella di Ratatouille, il topolino che raggiunge l’empireo della ristorazione parigina. Solo che questa volta non si tratta di sorci ma di persone in carne ed ossa. A restare identica è l’ambientazione che le fa da cornice: Parigi, una delle culle del buon mangiare mondiale.

È la storia di Alan Geaam che non inizia, come per il nostro topino chef, nel sottotetto di una scalcinata casa di campagna ma in un paese lontano e del quale poco sappiamo. Alan è nato infatti in Liberia 43 anni fa. Suo padre aveva una piccola drogheria, la madre si occupava della casa e dei figli. A 10 anni il nostro futuro chef aiuta il padre a negozio, è lì che si appassiona ai sapori e ai profumi del cibo, a tal punto che la cucina diventa per lui una sorta di fissazione, quando torna dalla scuola, come tanti bambini nel mondo, accende la televisione, solo che Alan, invece di guardare cartoni animati, guarda i tanti show di cucina che furoreggiano persino in Liberia. Sarà poi la mamma a insegnargli come ci si muove ai fornelli e a spiegargli come cucinare voglia dire amare e rendere felice la gente. 
Ma la storia, quella con la S maiuscola, come spesso accade ci mette lo zampino. In Liberia scoppia la guerra, i genitori perdono tutto e decidono di emigrare il Libano. Non è una scelta felice perché di lì a poco anche in Libano si infiamma costringendo la famiglia Geaam a scappare di nuovo. Inizia così un lungo peregrinare che li porta prima negli Stati Uniti, poi in Italia e quindi in Cecoslovacchia. Quando Alan compie diciott’anni decide di tentare la fortuna e di farlo a Parigi, nella capitale europea della gastronomia. Non è una scelta facile, il ragazzo non ha una lira, dorme in parchi e giardini pubblici, fa freddo e non parla una parola di francese, difficile farsi amici. Ma il nostro non si scoraggia e per sopravvivere si inventa mille mestieri, fa l’operaio nei cantieri, consegna pizze a domicilio e lava i piatti in bar e ristoranti. Lui non lo sa ma il destino sta per dargli una mano. Una sera, in uno di questi ristoranti, mentre è intento a strofinare pentole e padelle, lo chef si taglia malamente una mano e deve essere ricoverato in ospedale. C’è grande agitazione in cucina. In sala ci sono 14 tavoli di gente affamata che rumoreggia.  Che fare? Alan non si perde d’animo, si mette ai fornelli e cucina come se non ci fosse un domani. E accade un miracolo. Gli avventori divorano tutto, entusiasti e appagati. “Ma allora sai cucinare!!” esclama felice il proprietario del ristorante. “Sì” risponde semplicemente il cuoco in erba.

È nata una stella.

Da quel momento in poi la strada è in discesa.  Apre quattro ristoranti che hanno un discreto successo, finché, è notizia di questi giorni, la prestigiosa guida Michelin, la bibbia di chi fa cucina, gli assegna una delle sue preziose stelle. Il ristorante di Alan, che ha il suo stesso nome diventa immediatamente alla moda. È nel cuore di Parigi, vicino all’Arc de Triomphe.  E questa storia noi, convinte Pollyanne, non potevamo proprio non raccontarla!

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